Rassegnarsi? No, grazie
Come un’insegnante nel quartiere degradato di una grande città prova a non arrendersi allo squallore, al disordine e all’illegalità
Ogni mattina mi capita di vivere un’avventura sempre nuova e sempre sconcertante.
Esco di casa ed una breve passeggiata nel traffico mattutino mi porta alla metropolitana; respiro l’aria intrigante di una delle più grandi città d’Italia. Grande in tanti sensi: per la sua storia, per la sua gente, per le sue potenzialità, per le sue ricchezze di ogni genere, per il suo calore, per la sua sofferenze, per la sua dignità.
Entro in metropolitana fra volti sconosciuti ma non estranei; immagino storie, intrecci, fatiche… Poche fermate; esco dal tunnel, risalgo in superficie e… mi ritrovo – come Harry Potter! – in un altro mondo.
Il grigio di edifici scrostati ed imbrattati al limite dello squallore, marciapiedi sconnessi, cassonetti arrugginiti, rifiuti di ogni tipo disseminati lungo la strada: materassi, pezzi di elettrodomestici, mobili squartati, vetri rotti… tra le crepe dell’asfalto qualche timido ciuffo d’erba si affanna a dare un segno di speranza.
Un’altra passeggiatina e mi ritrovo a scuola; l’edificio non ha niente da invidiare al resto del rione: già entrarci richiede un grande atto di coraggio. Il coraggio di entrare nel ‘brutto’, nel ‘non accogliente’, nel ‘disordine’.
La scuola è praticamente sfornita di tutto, dell’essenziale, del necessario. Le classi, spoglie e disordinate, si affacciano su un corridoio che i colleghi chiamano significativamente il ‘miglio verde’, dall’appellativo del tragitto che nelle carceri americane porta dalle celle alla sedia elettrica.
Non disponiamo di un’aula docenti dove custodire in modo sicuro i documenti e i materiali (la scuola nei momenti notturni è spesso visitata…), lavorare serenamente, ricevere i genitori. Una stanza sufficientemente ampia c’è… ma è da anni diventata un deposito polveroso, pieno di scatole, libri vecchi, materiale dimenticato o inutilizzabile, anche ingombrante; risistemarla sarebbe un’impresa non da poco: tempo oltre quello del servizio, energia, materiali da comprare. Il personale ausiliario non è disponibile; tra i colleghi inizia la polemica: «Non tocca a noi», «Facciamo già abbastanza per uno stipendio inadeguato», «Non se ne parla proprio»…
Senza discutere troppo, ci accordiamo con un gruppetto di colleghi disponibili e motivate e diamo inizio ai lavori: scope, stracci, buona lena e gioia di stare insieme per qualcosa di positivo. In due mattinate il magazzino diventa un’ariosa stanza con scaffali ordinati e sedie pulite (anche se non ce n’è una uguale all’altra!!!). L’ambiente aiuta e vuole esprimere l’impegno a rendere bello il nostro lavorare insieme per questi ragazzi che, anche se inconsciamente, hanno sete di bellezza e armonia.
Ma non è solo una questione di estetica o un capriccio; ci sono carenze ben più profonde che ci sfidano ogni giorno: la mancanza di strumenti didattici e tecnologici di base che potrebbero in qualche misura venire incontro alle esigenze di 110 ragazzini che vivono qui sei ore di ogni loro giornata. Hanno tutti facce e sguardi vivi, intelligenti… 110 paia di occhi dietro ai quali spesso si nascondono casi familiari e situazioni border line: genitori in carcere, altri latitanti, parenti morti in lotte fra clan, madri-ragazzine, famiglie ricombinate…
Sul rione incombe una cappa pesante, più pesante del cemento sporco che fa da sipario alle viuzze percorse da motorini sfreccianti, alle botteghe anguste, alle piazzette ed alle edicole dove si traffica, si spaccia, si decide.
E questa è l’amarezza più profonda che provo ogni mattina quando entro in questo mondo che, pur lontanissimo da quello in cui vivo, sento ogni giorno di più ‘mio’.
L’amarezza di constatare come il destino dei ragazzi che tutti i giorni mi vengono incontro sembri già deciso, segnato. La loro vivacità (a volte la loro sfrontatezza), la loro intelligenza, la loro voglia di vivere merita qualcosa di più che pomeriggi trascorsi davanti ai videogiochi o in giro per le strade ad imparare dai più grandi i trucchi e gli espedienti meno nobili per tirare a campare.
Le loro ambizioni (loro non lo sanno…) possono elevarsi molto oltre il raggiungimento del presunto prestigio di un boss o le unghie laccate per sembrare più grandi.
Ci si sente impotenti, sognatori senza speranza.
Un rione dove la miseria non è economica: è umana.
Un rione che sembra dimenticato da Dio e dagli uomini.
Un rione che non conosce spazi aggregativi, attività sociali, spiragli di futuro.
Un rione dove i ragazzi vengono a scuola per crudo obbligo, per paura dei carabinieri a casa.
Una mattina, entrando più tardi in classe, sono stata alla messa nella chiesa della zona. La celebrazione era accompagnata dalla musica ad alto volume che arrivava dalla strada: neo-melodici a tutto spiano, secondo i gusti del posto; a pochi metri dalla chiesa il ‘centro direzionale’ del quartiere: la materializzazione dell’illegalità, del disprezzo per il bene, dell’offesa ad ogni valore e ad ogni diritto.
Le parole del Vangelo del giorno risuonano forti come mai. «Gesù cominciò a dire: questa generazione è una generazione malvagia; essa cerca un segno…».. Il cuore si fa piccolo… un velo di tristezza, una domanda: «Come fare? e se quel ‘segno’ potessi – con altri – essere anch’io? Ma come? Da dove cominciare?».
Con i colleghi siamo una bella squadra: non ci arrendiamo facilmente, anche se spesso ci ritroviamo con armi spuntate.
Con le assistenti sociali, i carabinieri del territorio c’è una collaborazione che può senz’altro crescere ma che è già un punto di forza.
Con le istituzioni… beh… il sindaco ed un paio di assessori sono passati di qui; hanno elogiato il nostro operato, hanno verificato difficoltà, carenze e pericoli; vedremo…
Ma in quel momento, davanti al tabernacolo, si riaffaccia un suggerimento importante: confidare nell’Onnipotente con quella fede che opera “miracoli”.
Ritrovo dentro una certezza: davanti al Male che sembra dominare coscienze, rapporti, famiglie intere… solo il Bene può essere ‘la’ risposta, quel Bene ariete di luce e di speranza che sfonderà – prima o poi – il muro della malvagità, della violenza, dell’ingiustizia.
di Maria Silvia Dotta
L’esperienza di Maria Silvia è un appello a fidarsi della chiamata dell’Onniponte ad essere strumenti Suoi per portare il Suo Regno a tutti, la’ dove Egli ci destina. Gianfrancesco
Questa testimonianza mi ricorda l’esperienza che nel lontano 1986 feci a Napoli, trovandomi come docente a partecipare agli esami di Maturità Tecnica Commerciale , presso due sedi scolastiche: una pubblica e l’altra privata.
Nell’ insediarci presso la sede dell’Istituto Pubblico, lo stato di degrado della scuola e degli arredi, pur di recente rinnovati, come si deduceva dagli accatastamenti di materiali( ancora agibili) abbandonati nel cortile, ci portò ad esprimere un giudizio di improcedibilità dei lavori e solo un immediato supplichevole intervento di intercessione del ministero ci indusse a continuare.
Nel confronto con la scuola privata presso la quale anche operammo al dunque i risultati furono positivi per tutti gli studenti ma i punti di eccellenza si ebbero solo nella scuola privata. Presentava una classe più numerosa con studenti anche più problematici e docenti meno professionalmente qualificati di quelli della scuola pubblica. Aveva però un ambiente curato ed accogliente.