Carlo & Alberto: due come noi

26-02-2016 di Franz Coriasco
Fonte: Rivista: “Unità e Carismi” n. 3/2016 p. 47/50
La Diocesi di Genova ha iniziato nel 2008 una causa congiunta per la beatificazione di due amici, Carlo Grisolia e Alberto Michelotti, morti 36 anni fa, a 40 giorni di distanza l’uno dall’altro. Alberto, nato a Genova il 14 agosto 1958, animatore ACR, catechista, impegnato in parrocchia; con la Mariapoli del 1977, “Dio amore” entra nella sua vita. Carlo Grisolia, nato a Bologna nel 1960, da Chiara Lubich ha imparato la strategia del “farsi santi insieme”. Alberto e Carlo sono nello stesso gruppo gen della Val Bisagno. Lasciamo che ci racconti la loro storia uno che li ha conosciuti da vicino.

Tanto vale dirlo subito: questo ricordo è innanzi tutto la storia di un apparente paradosso. Anzi, di parecchi paradossi e di altrettanti azzardi, oltreché del mistero e degli smarrimenti che accompagnano gli umani quando si trovano a fare i conti con le dipartite troppo premature. Perché, tanto per cominciare, i due protagonisti di questa storia sono solo in parte “due come noi”, visto che è in corso la loro causa di beatificazione; eppure, per come li ho conosciuti, come noi lo erano davvero.

Alberto Michelotti è morto cadendo in un canalone alpino il 18 agosto 1980, quando aveva solo ventidue anni, e Carlo Grisolia ha lasciato questa vita appena qualche settimana dopo, stroncato a vent’anni da una malattia terribile, tanto rapida quanto incurabile. Un tragico intreccio a guardarlo dal basso, e tuttavia per molti, capaci di guardarla da un’altra prospettiva, una storia “a lieto fine”. S’era agli inizi degli anni Ottanta, la decade più cialtrona e sensazionalista del Novecento, e oggi mi vien da pensare che quei due c’entravano con i nascenti “anni di panna” quanto un praticello di primule con un caterpillar.

Li avevo conosciuti entrambi, qualche anno prima: due amici in mezzo a tanti altri, come avviene spesso in quell’età di mezzo che separa le ebbrezze dell’adole- scenza dalle impervie responsabilità dell’età adulta. Alberto e Carlo: due creature a loro volta in antitesi o complementari, a seconda dei punti di vista. Certo in- finitamente diverse per carattere, temperamento, background culturale, gusti. In comune avevano una città, Genova, che per noi torinesi ha sempre rappresentato una specie di mistero, affascinante e pericoloso insieme: a immagine e somiglianza di quel gran mare che l’accarezza e la schiaffeggia da millenni.

Genova, così ben raccontata da quella progenie di cantautori così creativa e particolare da venir definita “scuola”. A noi torinesi, seccava un po’ che a manco duecento chilometri di distanza ci fosse un tale campionario d’artisti, e da noi quasi nessuno in grado d’arrivare alla ribalta nazionale. Forse per questo li vede- vamo sempre con una punta d’invidia e mezza di circospezione, questi genovesi: così caldi nel loro essere amici, così esageratamente sentimentali secondo noi altri sabaudi, sempre così riservati, iper selettivi e talvolta algidi perfino nelle nostre amicizie. Certo s’era tutti parte del medesimo Movimento gen, ma i rispettivi imprinting apparivano agli uni e agli altri più lontani della luna.

Carlo e Alberto, due storie che qualcuno ha voluto unire e scandagliare insieme per valutare se, per caso, fossero il segno, o meglio le prime avanguardie, di un nuovo tipo di santità: una santità collettiva, diversa dai cliché consueti. Come dicevo, il processo di beatificazione è in corso, sicché tocca sospendere il giudizio. Del resto non son certo qui per esprimere pareri in proposito (per un agnostico sarebbe davvero imperdonabile), quanto piuttosto per sorvolare un vecchio sentiero: non solo per il piacere di raccontarlo e raccontarli, sia pure da un angolino alquanto marginale, ma fors’anche per ritrovare panorami e sensazioni antiche, epperò credo ancora necessarie, specie in tempi ansiogeni e smarriti come questi.

Ora che ci penso, un’altra cosa avevano in comune quei due: la loro generazione (che per molti versi è anche la mia), quella vagamente ibrida di chi, all’epoca, era troppo giovane per inebriarsi sulle tenere e già svaporanti illusioni del Sessantotto, ma già troppo vecchio per immergersi nell’individualismo più o meno edonista che avrebbe segnato quella seguente. Una generazione “di mezzo”: ancora conta- minata dai radicalismi stradaioli dei nostri amici più grandi, ma che già si portava addosso e nel cuore il sospetto della loro ingenuità o deteriorabilità. E tuttavia sì, Alberto e Carlo erano diversi. E tali apparivano, perfino per chi, come me, li incrociava di rado. Ma bastava guardarli e stare con loro una mezz’ora per capire quanto. L’uno così perfettino, determinato e attraente (da intendersi nel senso più letterale e profondo dell’aggettivo), l’altro così fragile, inquieto, introverso e aggrovigliato. Un pragmatico con propensioni mistiche, il Michelotti; un poeta dilaniato dai dubbi, il Grisolia; così mi sembravano: l’uno un involontario trascinatore di folle, e l’altro un cercatore d’oro; l’uno sempre pieno di risorse e d’attenzioni per tutti, l’altro spesso rinchiuso in quel suo idealismo romantico e sovente solitario. Come abbiano fatto a volersi così bene e a condividere i passi salienti delle loro rispettive vicende è presto detto: un’amicizia fondata, prima ancora che sulle affinità elettive, sul sentirsi parte di un progetto grande e incorruttibile che li trascendeva. Entrambi avevano scelto di fare del vangelo la loro stella polare. Entrambi sentendosi inadeguati a incarnarne fino in fondo le regole e le logiche, ma entrambi convinti che per farcela occorresse procedere “in cordata”, dandosi una mano l’un con l’altro. E anche questo ci dice qualcosa su una spiritualità capace di superare in qualche misterioso modo qualunque barriera caratteriale e tempera- mentale, oltreché quelle culturali, religiose, razziali, o di ceto sociale. Questo era, e sostanzialmente è ancora oggi, il nocciolo duro dell’essere gen.

Quando i due si conobbero erano entrambi già formati, e stavano attraversando quella decisiva stagione della vita dove solitamente gli obiettivi e i valori di riferimento affratellano ben più delle complementarità. Per onestà aggiungo che, se anch’io, come quasi tutti, ero affascinato da Alberto (dalla sua gentilezza, dal suo carisma, dalla sua simpatia estroversa), da Carlo invece giravo quasi alla larga: un po’ perché riconoscevo in lui i miei stessi difetti, un po’ perché non era uno che lasciasse entrare nel suo mondo chiunque gli si affacciasse. Ciò detto, era chiaro a chiunque li conoscesse che le loro rispettive essenze e consistenze erano alquanto difformi, e nessuno – tanto meno loro – avrebbe mai potuto supporre che un giorno si sarebbero intersecate così intimamente da renderli quasi parte uno dell’altro.

Io e Alberto siamo nati a poco più di un mese distanza. Carlo era di due anni più giovane. Con Alberto, avevo occasione di vedermi più spesso e devo ammettere che ogni volta restavo regolarmente affascinato non solo dalla coerenza della sua radicalità evangelica, ma anche dal candore con cui sapeva ammorbidire un’intelligenza e un intuito davvero fuori dal comune.

Anche se non dava l’impressione d’esserne cosciente, sembrava star lì solo per dimostrarti implicitamente quanto ancora ti mancasse per poterti considerare un cristiano autentico. Viceversa, Carlo mi faceva spesso pensare a qualcosa tipo “se ce la fa uno così, allora ce la posso fare anch’io”. Ricordo perfettamente quella mattina d’agosto quando arrivò la notizia della morte di Alberto, nello stesso giorno in cui Carlo venne ricoverato in ospedale per non uscirvi più. Ricordo quella struggente Signore delle cime, cantata con le lacrime agli occhi, ancora incapaci di credere che fosse davvero successo. Alla “partenza” di Carlo arrivammo solo un po’ più preparati, ma non meno sorpresi: soprattutto da quella straordinaria quarantena ospedaliera che aveva segnato per lui un’escalation mistica impressionante, e grazie alla quale, anche quell’idiota del sottoscritto arrivò finalmente a rendersi conto quale fosse davvero la sua “cilindrata spirituale”.

Molte cose di loro le avrei scoperte solo molti anni dopo. Come gli affettuosi “pizzini” che amavano scambiarsi, i loro grovigli sentimentali e spirituali, i passaggi più delicati e privati delle loro esistenze, le loro intimità con quel Dio così reale e tangibile, specie nei loro ultimi scritti. Tempo fa ho avuto modo di rincontrare i loro amici più intimi e le loro madri, e molte delle mie sensazioni primigenie si poterono finalmente accordare con una più oggettiva realtà dei fatti. Ma sono sensazioni così difficili da esprimere per me oggi, che preferisco lasciare al lettore l’intuirle dalle loro parole. Pochi mesi prima di morire, Alberto scrive a Carlo, appena partito per il servizio militare:

Sono in questa splendida chiesa di S. Siro. Sono solo, e sul tetto di legno sento picchiare dolce la pioggia. È un momento tutto particolare, bellissimo. Quasi non vorrei andarmene più. Sono passato di qui per mettere nel Suo Cuore tutte le infinite cose che io non so fare, che magari rovino soltanto. Tra le tante, in questi giorni ci sei tu… Quasi sento nella mia carne, nel mio cuore, il momento delicato che stai attraversando, che sto attraversando. In questo silenzio così bello mi sta rispondendo che non ci possiamo fermare; amare, amare tutti, spaccarci il cuore per fare uscire il vero amore, quello nato dal dolore…

Facile immaginare quale fu lo strazio di Carlo quando seppe della morte di Alberto, ma pochi giorni prima di raggiungerlo dall’altra parte del cielo, confidò a un gen venuto a trovarlo in ospedale, una sorta di “consegna”, probabilmente la stessa che avrebbe espresso Alberto se ne avesse avuto il tempo:

Sono alla fine. Volevo dirti di essere pronti a dare la vita l’uno per l’altro in questo momento… Offro la mia vita per tutti voi, ma soprattutto per l’umanità che soffre, per i ragazzi del mio quartiere, per tutti quelli che ho conosciuto… So dove vado, sono pronto al tuffo in Dio.

Parole semplici, prive di qualunque zavorra retorica perché in loro erano divenute parte di una concretissima grammatica esistenziale.
Per uno strano scherzo del destino, nella mia vita ho avuto la ventura di incrociare e di conoscere un bel po’ di persone “in odor di santità”: da Maria Orsola che fu la mia maestra di catechismo, a Chiara Luce Badano, per non dire di Madre Tere- sa e Chiara Lubich, solo per citare quelle più o meno certificate da santa romana Chiesa. Ebbene, se è vero che le vie che portano a questo misterioso status sono veramente infinite, e se esso è – per esprimerlo laicamente – un’ansia di perfezione, d’eternità, d’assoluto portata a compimento, allora devo sospettare che Alberto e Carlo ne rappresentino, almeno per come li ho conosciuti – due estremi: l’uno mi pare che ci sia quasi nato, l’altro che lo sia diventato “in zona Cesarini”, o per usare un’espressione più consona, come “un operaio dell’ultima ora”. È una sensazione personale beninteso, ma che anche oggi, a trentasei anni dalla loro di- partita, non riesco a levarmi dalla testa. Ma non è questo il punto, né può esserlo per chi come me non può o non sa più credere. Quel che piuttosto questa vicenda mi ricorda e continua a insegnarmi è che alla fine dei conti è davvero solo l’amore a non svaporare nelle infinite notti del tempo e nei fiati delle chiacchiere: quel che abbiamo saputo dare, e quello che si è ricevuto.