Per amore della vita intendo questo

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Da anni, Bruno e Mina aprono le porte della loro casa di Genova all’umanità variegata delle periferie umane di oggi: giovani disadattati, malati di mente, immigrati, gente in difficoltà. Una testimonianza di Vangelo vissuto nel silenzio e nella radicalità.

Dal libro “Senza diritto di cittadinanza” di Silvano Gianti (edizione Città Nuova)

“Oggi, suono anch’io al campanello del condominio, non c’è il cognome, ma solo i loro due nomi: Bruna e Mino. Sono entrambi in pensione, anche se hanno superato da poco i ses­santa. L’ascensore mi porta all’ultimo piano, dove una bella terrazza affaccia sulle colline genovesi. Sono vissuti lunga­mente a contatto con le periferie umane, accogliendo ragazzi e adulti in difficoltà.

Lo hanno sempre fatto in modo semplice, senza cerca­re troppe spiegazioni. Era il loro stile di vita. A interrogar­si ripetutamente, invece, è stato il figlio, che dopo anni di ripensamenti ha deciso di affidare le sue considerazioni a facebook, convinto che i suoi genitori lì non le avrebbero mai lette. E invece loro le hanno scoperte, per caso. E forse per la prima volta hanno sentito l’eco delle loro azioni e del­la loro generosità.

«Le sole persone da cui potrei accettare discorsi su fede e sacralità di ogni vita sono i miei genitori. Mia mamma e mio papà. Bruna e Mino. Loro, insomma. Mica per altro. Perché da loro non dovrei ascoltare nes­suna opinione: dovrei soltanto assaggiare vita. Lo hanno scel­to appena sposati, anzi prima. Avevano trovato la casetta dei loro sogni (per i padani sarà normale, ma in una città come Genova è pura fantasia), indipendente, con giardino, eppure in centro. Da principesse delle favole. Però Ercolano, il loro amico distrofico, non ci sarebbe potuto andare. Niente casa dei sogni, appartamento di 40 mq in affitto in un palazzone. Per amore della vita intendo questo.

Ho vissuto una vita intera circondato da affetti dolorosi, persone che passavano da casa nostra nel loro momento peg­giore, e ci stavano settimane, mesi, per condividere brandelli di vita, dolori, morti. Qualcuno per un figlio, qualcuno per un marito, qualcuno per se stesso. E con ognuno ho costruito relazioni, ho imparato il dolore, ho appreso la normalità della sofferenza, la possibilità della fiducia. Aurora, per dire, è stata con noi mesi, tra ospedale e casa. Lei e i suoi fratelli, i suoi genitori. Bastava stringersi, e condividere. La chemio. La pri­ma comunione fatta di fretta, perché ci teneva. E la settimana dopo sarebbe stato troppo tardi. Aveva nove anni. Per amore della vita intendo questo.

Non è questione di fare da lazzaretto. È questione di aprire la porta. Ho scoperto tardi, già grandicello, che tutto questo non era precisamente “normale”. Avevamo cambiato casa, questa era più grande, con il terrazzo. C’è spazio. Mio padre si è licenziato quando gli hanno chiesto di fare la cre­sta sui bilanci. Si è messo in proprio, un lavoro in cui poteva guadagnare milioni al mese, in nero, in assoluta sicurezza. E invece ha scelto di restare nella legalità a costo di non fare i regali di compleanno ai propri figli. Per amore della vita intendo questo.

Quando Pippo aveva bisogno di piastrine, nessuno di noi quattro in famiglia poteva donarle. Abbiamo chiamato a raccolta fidanzate, amici, compagni degli amici, scono­sciuti coinvolti pressoché per caso… Mobilitare per la vita è questo, mica manifestare davanti a una clinica. Per inciso, Pippo è morto comunque. Ma all’ospedale ricordano anco­ra la processione inaudita di gente sconclusionata venuta a donare piastrine, non l’avevano mai vista, c’erano avvocati e giovani punk con tanto di cresta, studentesse universitarie vestite a puntino e commercialisti tremolanti che se la face­vano sotto, ma alla fine si erano decisi. Per amore della vita intendo questo.

E Stefano? È stato con noi quattro anni. Chiaro che un adolescente antipatico e malato non lo vuole nessuno. Ep­pure. Questo mi è pesato, e manco poco. Alla fine, non ne potevo più, lo riconosco. Quando è andato via, è stato libera­torio, perché mica bisogna fingere che sia sempre tutto bello e facile e edificante. Non ne vado fiero, l’ho evitato per un pezzo. Prima di ogni coma (il ragazzo aveva un che di teatra­le) ha però sempre cercato i miei, anche dopo anni. E c’erano solo i miei con lui quando è morto. Nonostante i pesci in faccia, le batoste. Erano lì, a tenergli le mani. Per amore della vita intendo questo.

Perché? Se volessi chiederglielo, farebbero spallucce. Forse, se insistessi, ti racconterebbero che per loro il vangelo è una cosa che conta, e che hanno deciso di crederci. Ma non con la testa, o con il cuore. No, no: con il corpo, con la vita. Per questo sono gli unici da cui potrei accettare discorsi su fede e sacralità di ogni vita. E forse, diciamocelo, anche per­ché non ne hanno fatti. Anzi, semmai…».

L’autore:

Silvano Gianti è nato a Cuneo nel 1957. Da sempre attento a chi vive in situazioni di povertà e di disagio, ha vissuto in diverse città d’Italia. Abita attualmente a Genova, dove lavora per “Città fraterna”, una onlus che sostiene i disoccupati del capoluogo ligure. Ha pubblicato in passato sul «Sole 24 ore» online, dal 1978 scrive sul settimanale diocesano «La Guida» e collabora con la rivista «Città Nuova».

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