Toti Ingrassia, focolarino di Milano, si ammala di coronavirus. Dopo la terapia intensiva e 15 giorni di ospedale è guarito. Una storia di speranza e di solidarietà da cui molto s’impara.
La prudenza non è mai troppa. E Toti Ingrassia, 62 anni, educatore, con un quadro clinico non esente da altre malattie da tre settimane stava rinchiuso in casa, ben prima del lockdown. Poi, improvvisa, la febbre dirompente. Ne soffre non solo lui ma anche un altro compagno della comunità del focolare di Milano, mentre altri quattro sono messi in quarantena in casa per 15 giorni. La visita del medico di famiglia conferma che ci sono sintomi riconducibili al coronavirus. Toti e un altro focolarino sono portati nella stessa ambulanza al Policlinico di Milano.
Al pronto soccorso urla, agitazione, tensione attraversano le sale e i corridoi. Il coronavirus mette a dura prova uomini e strutture. La sua diffusione è in piena espansione e colpisce tutti. È una livella direbbe Totò che rende tutti uguali, fragili, passeggeri.
Il sentimento dominante di Toti è la paura di non sapere, di essere scaraventati di colpo in una situazione indecifrabile, di essere di fronte alla propria nudità esistenziale, nel non sapere se e quando si supera un punto di non ritorno. Oltrepassare le porte dell’ospedale al tempo del coronavirus è come varcare le colonne d’Ercole, il limite del mondo conosciuto. Si naviga a vista verso l’ignoto.
Del mondo di prima resta solo il cellulare e qualche effetto personale. Nel mondo di mezzo, nel reparto di terapia intensiva, Toti si ritrova in una pellicola di fantascienza. Viene allettato, nota i compagni di stanza intubati e con il casco posto intorno al capo per poter respirare. Vivace, dinamico, abituato ad una vita attiva è preso dallo sconforto. Mai si immaginerebbe in quello stato di blocco totale, imprigionato, inchiodato al letto. Si agita. I medici se ne accorgono e lo addormentano con una puntura.
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