Uno squarcio di speranza, tra i veli oscuri dell’Afghanistan

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Mentre al TG annunciano che il ritorno al regime talebano in Afghanistan ha compiuto già un anno, saluto Fatima e Najeeb. Loro sono tra quelli che sono riusciti a scappare dall’oppressione e dalla follia di una barbarie ingiustificata. Lui giornalista, manager e attivista politico. Lei studentessa in Farmacia. Genitori di Yasna 13 anni e Shabahang 10 anni.

Prima di arrivare in Italia, hanno dovuto affrontare un viaggio rischioso e lungo, attenti a non essere intercettati. Ma nonostante il rischio e la paura, l’8 febbraio scorso, sono arrivati in Italia. Ciro Marino, editore pomiglianese e ‘contatto’ di Najeeb, è riuscito, grazie all’aiuto della sua rete di amici e grazie all’amministrazione comunale, a farli arrivare fin qui. Gli stessi hanno deciso di coinvolgere don Peppino, sacerdote che si è sempre prodigato per gli ultimi e le persone in difficoltà. E lui coinvolge noi volontari. Un giorno ci convoca e ci comunica che avrebbe offerto loro come alloggio, la casa canonica. Mentre ci spiegava, ricordo che scorrevano nitide nella mia mente, le immagini passate in TV, degli aerei partiti da Kabul, zeppi di disperati che volevano scappare da quella realtà opprimente, che si stava nuovamente delineando per loro. Gente che si è aggrappata ad un aereo e alla speranza e che ha perso la vita mentre tentava di salvarla.

Don ci invita ad accoglierli. Ci sollecita però, non solo ad offrire il nostro apporto dal punto di vista pratico, ma a mettere in circolo, la nostra vicinanza e l’identità cristiana che: accoglie, solleva e accompagna… Capiamo subito che non possiamo solo offrire un’abitazione, ma siamo chiamati a farci ‘fratelli’ con e per loro, sospinti dallo stesso monito di Papa Francesco, che ci invita a costruire una grande famiglia universale, dove le differenze non sono un ostacolo all’unità.

‘Avranno bisogno di noi, di tutto il nostro supporto e siamo chiamati ad esserci’, ci dice. E così si mette in moto la macchina dell’amore.
Il Comune comincia i lavori di sistemazione dell’appartamento, perché (chiuso per tanto tempo), non era nelle condizioni di ospitare qualcuno e intanto ci mobilitiamo per far arrivare: letti, materassi, una cameretta per i ragazzi, pentole, lenzuola, coperte, prodotti per l’igiene della casa e della persona. Riempiamo la credenza di cibo e provvediamo a procurare, quanto è necessario avere in una casa. La comunità è operativa!

Dopo varie vicissitudini e diverse difficoltà, che rimandano di volta in volta l’arrivo dei nostri amici, arrivano in Italia. Ciro, finalmente ci chiama dicendo: ‘sono arrivati! Sono in salvo! Sono qui tra noi!’ E noi siamo felici con lui e naturalmente per loro. In serata ci organizziamo per accoglierli. Li vediamo arrivare con un furgoncino e le loro valigie cariche di SOLLIEVO e di SPERANZA. Indossano le mascherine e questo, non ci consente di vederli completamente in volto, ma gli occhi sorridono… Sono scappati! Hanno dovuto lasciare tutto: terra, famiglia, amici, radici, cultura, casa, lavoro ma sono in salvo e, il sollievo che deriva da questo nuovo status, si evince da quello scambio con gli occhi. Sono finalmente al SICURO… lontani dalla bruttura dell’umanità, dove i diritti sono calpestati e la dignità è offesa. Una volontaria ha preparato loro la cena, il giorno dopo un’altra volontaria, gli ha fatto arrivare una crostata…poi frutta verdura ecc… Da quell’appello di don alla comunità parrocchiale, è nata una grande gara di solidarietà, una sinergia e una comunione di intenti, improntata sul voler essere ‘CASA’ per questa famiglia.

Don Peppino per loro è stato un punto di riferimento fondamentale. Noi abbiamo cercato di renderli ‘PARTE’ e questo ci ha consentito di stringere un bel rapporto di amicizia. Le reciproche diversità, si sono intersecate bene e non hanno mai costituito un ostacolo. Loro sono musulmani, ma anche questo non è mai stato elemento divisorio. Anzi, ci ha permesso di capire, una volta di più, che il RISPETTO è il canale per creare UNITÀ. Abbiamo sperimentato che si possono vivere ‘credo’ differenti, eppure trovare quel ‘punto di congiunzione’ nel quale creare L’INCONTRO.

Nonostante non parlassimo la stessa lingua, siamo sempre riusciti a comprenderci. I gesti di vicinanza che accompagnavano il nostro desiderio di aiutarli, arrivano prima della conoscenza della lingua persiana (loro lingua madre). È evidente che l’amore ha un linguaggio universale e che non ha bisogno di interpreti. Naturalmente ci siamo avvalsi del supporto di traduttori, ma il legame non si è creato per quello, ma nel ‘giorno per giorno’, lì dove li coinvolgevamo e li aiutavamo come potevamo. Abbiamo dovuto assicurargli assistenza alimentare e non solo. Un giorno Najeeb ci ha contattati perché stava male e una volontaria prontamente, lo ha accompagnato da un medico amico della comunità.

Un’altra volta ci ha contattati perché Yasna, il primogenito è caduto dalla bicicletta e si è fatto male ad un braccio. In accordo con don Peppino e insieme a lui, lì abbiamo accompagnati al pronto soccorso e fatto tutto quanto si possa fare, ‘come vorresti fosse fatto a te’… Li abbiamo sempre coinvolti nei servizi che svolgiamo per i poveri del territorio e loro hanno sempre risposto con prontezza e disponibilità. Li abbiamo sempre interpellati sia per creare vicinanza, ma anche e soprattutto affinché si sentissero parte coinvolta e non solo ‘recettori’ del nostro impegno solidale. Così si fa famiglia, ‘col poco nel poco’, (volendo citare Don Mimmo Iervolino, l’altro parroco della nostra parrocchia), dove ognuno può dare il suo contributo e fare la sua parte, indipendentemente dalle condizioni di stato e di status. Tutti siamo ”abilitati” ad amare!

Difatti anche loro piano piano hanno iniziato a mettere a nostra disposizione abilità e conoscenze. Najeeb è anche un fotografo professionista e più volte in occasione di eventi organizzati da noi, ci ha offerto la sua competenza. Abbiamo partecipato ad una manifestazione per i diritti dei rifugiati e Fatima ha voluto esserci. Era bello vederla accanto a noi in questa lotta pacifica per i tanti che come lei, sono stati obbligati per ragioni svariate, a lasciare il Paese di appartenenza e lottano affinché gli vengano riconosciuti, i diritti. È bella la connessione solidale che ha voluto esprimere, insieme a noi. Fatima si è fatta coinvolgere anche nel nostro ‘Laboratorio solidale’ attraverso il quale aiutiamo donne che vivono un disagio economico, ad imparare un mestiere e l’abbiamo scoperta bravissima nella creazione di Quilt e nella lavorazione di patchwork, che ha tentato di insegnare alle altre allieve.

Un giorno mentre preparavamo i pacchi per i bimbi poveri della città, è venuta con una teiera piena di tè caldo che ci ha porto, insieme al suo sorriso migliore e discreto. In quel gesto ci siamo guardati e riconosciuti tutti… ci siamo sentiti avvolti da un affetto ricambiato…in quel gesto c’era il senso di appartenenza alla nostra grande famiglia universale. Che bello! In un altro gesto semplice, abbiamo ritrovato lo stesso desiderio di scambio reciproco, quando ci ha preparato il Kabuli palaw, piatto tipico della loro tradizione a base di riso. Molto buono. Un modo per farci entrare nella tradizione della sua terra.

Fatima per me è il simbolo della libertà e delle battaglie vinte. La tua battaglia cara Fatima l’hai vinta togliendoti il Burqa, allontanandoti da un Paese in cui ti avrebbero sepolta viva. L’hai vinta ribellandoti al buio e accendendo la luce sui tuoi diritti a vivere a pieno il tuo essere donna, moglie e madre. Hai dovuto interrompere gli studi in farmacia, mi auguro tu riesca a riprenderli ed a riappropriarti del tuo diritto all’istruzione. Per tante tue compatriote purtroppo, ci sono solo ‘scuole segrete’.

La tua battaglia amica mia l’hai vinta ponendoti davanti alla vita e al mondo, faccia a faccia, nella libertà dei figli di Dio! Sorridi, esci, passeggia, ama, metti in circolo le tue capacità… Vivi! Senza oppressione, senza paura, senza vergogna. A VOLTO SCOPERTO! È questo quello che vorremmo per tutte le donne che sono rimaste nel tuo Paese e soffrono perché costrette ad una vita da guardare sotto il calore asfissiante e opprimente di un Burqa.

Dopo 6 mesi con noi, abbiamo trovato loro un’opportunità. Gli abbiamo proposto l’inserimento in un progetto presso un’associazione amica, che li accompagnerà in un percorso di integrazione. Loro hanno accettato subito e ben volentieri. Andranno a scuola di italiano e per lui ci saranno opportunità lavorative. Così che poi possano inserirsi nel nostro Paese, avendo tutte le possibilità per proseguire in autonomia. A loro auguriamo di riuscire a vivere serenamente nel nostro Paese, senza dover chiedere il permesso di ‘ESSERE’.
Senza timore, avendo a disposizione opportunità economiche, abitative, lavorative e sociali. Nonché tutto quello di cui ha diritto ognuno, affinché una vita possa essere considerata tale!

Di Elisabetta Visca

foto dalla pagina Facebook “Abbi cura di me”

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4 Commenti

  1. Grazie Elisabetta e grazie a tutti voi, a chi dà e sa dare e a chi riceve e sa dare a sua volta, a voi che ci ricordate come è possibile e bello che tutti siano uno.. perché il mondo creda…

  2. La storia scritta in modo chiaro e scorrevole testimonia la solidarietà di una comunità che sotto la guida del proprio parroco è pronta ad accogliere coloro che fuggono dalle ingiustizie e sopraffazioni. Lo spirito umanitario va al di là delle differenze di credo e religione e li rende uniti e forti.

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