(Parannanze: grembiule da cucina o da lavoro nel dialetto abruzzese).
Martedì mattina ricevo delle foto: sono del bagno di Tina, con alcuni sanitari quasi completamente incrinati, ovviamente inagibili. Tina ha due figli, di 7 e 13 anni, che per prudenza e sicurezza hanno imparato ad usare il vaso in modo ‘ginnico’. Ormai da tempo. Il padrone aveva fatto riparare la spaccatura che già c’erano in modo sbrigativo e superficiale, non migliorando, ma anzi compromettendo definitivamente il vaso e il bidet.
Tina è nigeriana, e mi chiede aiuto quando i suoi problemi hanno bisogno di un ‘autoctono’ ..sigh… Faccio mente locale e chiamo Luigi: non mi può aiutare direttamente, ma condividendo questa necessità ci viene in mente un altro amico. Non ho il contatto, così chiamo Bruna, che sicuramente lo ha. Non le mando un messaggio, voglio poterle spiegare meglio a voce. Il rapporto personale è sempre una risorsa nella soluzione dei problemi. Ho il contatto e lei, approfittando di questa telefonata, mi mette al corrente di un’altra necessità, piuttosto complessa. La ascolto profondamente, è una situazione di grande difficoltà. Mi dà il riferimento di questa nostra amica comune, che chiamerò sicuramente.
Subito dopo chiamo Marco, che mi dà la disponibilità a riparare il bagno. Capisco che è meglio andare insieme, così ci mettiamo d’accordo per il giorno dopo. Il bagno è vecchio e lui fatica non poco a sostituire i sanitari. Rimane chinato per ore: quell’immagine diventa fortemente simbolica, e quasi mi commuove: inginocchiarsi davanti a ciò che dell’uomo è ‘scarto, rifiuto’.
Marco era un agente di polizia…. cosa lo spinge a farsi così prossimo, a piegare le ginocchia e trovare soluzioni davanti ad un water? Lo intuisco: prendersi cura della parte di umanità più fragile, quella che è costretta a conquistarsi giorno per giorno ‘pane’, diritti, ma soprattutto dignità. Ha smesso la divisa per indossare quella della ‘parannanze’* cristiana.
Mentre lavora mi offro di andare a prendergli un caffè, lui accetta volentieri. Esco, affrettando il passo. Quasi arrivata al bar vedo una signora di colore con un passeggino. Mi viene incontro, sicura, ma allo stesso tempo garbata, con grazia. Mi accorgo che ha gli occhi lucidi e mi chiede in un italiano stentato, del latte per il suo bambino. Il tono della voce è più eloquente delle parole: è smarrita, fragile, disorientata, in cerca di quel latte, ma anche di qualcuno che la ‘veda’.
Le sorrido, le chiedo il suo nome e parliamo un po’. La accompagno in farmacia (meno male che è vicino al bar!) e le compro un po’ di scorta di latte in polvere. Mi ringrazia con gentilezza e io le chiedo il suo contatto, per poterci risentire ancora. Ci salutiamo: da oggi Joy fa parte di me. Prendo il caffè e ritorno a casa di Tina. Giustifico a Marco il mio ritardo, che sorride discretamente, di nascosto. La ‘parannanze cristiana’ è un abito che abbiamo in comune.
Manca un attrezzo e Marco scende al furgone per prenderlo. Colgo l’occasione e lo accompagno: gli avevo comperato un dolce, la gratitudine è sempre compagna della generosità.
Il lavoro si conclude, ma a Marco non sfugge il dettaglio dell’interruttore rotto del bagno e sostituisce anche quello. L’amore si vede nei dettagli! Tina è felicissima, ho l’impressione che quei sanitari nuovi le abbiano dato dignità. E ce lo fa chiaramente capire nella sua bellissima esuberanza africana!