Aldo Bertelle, lo sguardo fisso verso il domani

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Una vita spesa per i ragazzi più abbandonati per farli diventare cittadini del mondo. Ultima iniziativa è “L’Italia intarsiata”

Nella vita le cose, a volte, cominciano per caso. Sono così provvisorie che diventano stabili. Accade anche ad Aldo Bertelle, 68 anni, che nel 1974, quando era ancora studente, gli fu chiesto di sostituire per una settimana la direttrice di Villa San Francesco, una comunità di Facen Pedavena (Belluno), in Veneto, che ospita bambini e ragazzi dai 6 ai 18 anni, in difficoltà per problemi familiari, personali e bisognosi di riferimenti affettivi. La direttrice era stata ricoverata per una broncopolmonite e purtroppo morì. «Da allora sono ancora qui ad aspettare un sostituto». Di origine contadine, ex arbitro di calcio, Aldo Bertelle non parla volentieri di sé; lo fa solo per valorizzare i suoi ragazzi dietro le domande impertinenti di qualche cronista che gliele “estorce”.

Ma dopo una vita spesa per gli altri non pensa di andare in pensione? «Non riesco a dimettermi, ad andare in pensione, ma se lo facessi mi piacerebbe pregare di più, avere più tempo per Dio. Vivere a tempo pieno per i ragazzi è oggi la mia preghiera». E dei ragazzi Aldo è un “padre”. Da Villa San Francesco ne sono passati migliaia, in questo momento ce ne sono 22. Non si può capire la sofferenza degli altri se non la si è prima sperimentata e trasformata. Una ferita che diventa feritoia. Il dolore amato diventa amore, luce, dono per gli altri e per sé, perché amare è il più alto atto di reciprocità. Va e torna. Dà e riceve. Aldo, nonostante la sua ritrosia, potrebbe parlare per anni e riempire libri di episodi di vita reale.

La sua ferita personale è databile nell’infanzia. All’età di cinque anni. Negli anni ’50 in Veneto il latte fresco si mungeva “in diretta” dalle mucche e la mamma di Aldo restò paralizzata mentre compiva quell’atto quotidiano. In un attimo tutto cambia all’improvviso. «Mi trovai invecchiato di anni. Mia madre da allora non si muoveva e parlava più». Nel piccolo Aldo si forma la convinzione che la sofferenza non si colma con le parole, ma anche con il silenzio, i gesti, gli sguardi. L’amore è concreto, pratico, si esercita con l’essere e con il fare. «Amare – chiosa Aldo – vuol dire pagare – e la cosa più difficile non è amare ma capire una persona. La conosci con tre passaggi fondamentali. Il primo conoscere la sua infanzia. Il secondo conoscere un fatto, anche tragico, che lo ha segnato. Il terzo, quando capiterà, vedere come uno muore».

Aldo sposa la causa dei bambini e ragazzi in difficoltà perché lui lo ha vissuto, porta quella ferita sulla sua pelle. La sa capire, perché una ferita, anche se è rimarginata, resta nel corpo e nell’anima. Diventa un segno indelebile. Anche nel corpo di Gesù Risorto sono rimaste le ferite della crocifissione, ma non fanno più male, sono solo il segno dell’aver sofferto che rende possibile il saper soffrire e capire gli altri. Al di fuori di questa dimensione la solidarietà è solo parola, omelia, predica esterna all’uomo.

Un grande amico di Aldo Bertelle e della comunità di Villa San Francesco è stato il cardinale Loris Capovilla, già segretario di Papa Giovanni XXIII. «Poche ore prima che Capovilla morisse – racconta Aldo – ero accanto al suo capezzale. Non parlava più, ma mi indicò con l’indice della mano destra la sua guancia. Non capivo. Voleva un bacio sulla guancia. Era lo stesso gesto che suo padre gli chiese prima di morire: “Loris dammi un bacio”. Loris era allora ancora un bambino e questo fatto lo determinò fino a diventare un grande sostenitore della comunità».

Nel 1985 una grande nevicata attraversa l’Italia e causa molti danni a edifici, strutture, aziende. Il peso della neve procura il crollo di un capannone delle serre dove si svolgono le attività di “Zolla in fiore” della comunità Villa San Francesco. «Un signore mi informa per telefono – racconta Aldo – presi la macchina, arrivai lì e ho pianto. Tutto distrutto. Il lavoro di anni». Poco dopo Aldo Bertelle viene avvisato che due bambini di sette anni sono spariti. Li hanno visti uscire dal cancello e dirigersi verso il paese. Aldo li cerca e li trova sotto il capannone crollato. Li raggiunge e urla: «Cosa fate?». E loro: «Raccogliamo le primule, così poi le vendiamo». Un ottimismo, una fiducia nella vita, un senso di responsabilità verso la comunità. Cosa altro si può insegnare a dei ragazzi? Non è questa l’educazione? Qualche giorno dopo Loris Capovilla, allora ancora arcivescovo, chiama Aldo Bertelle e lo sente con un tono di voce basso e lui gli spiega che il cattivo umore è dovuto al crollo del capannone delle serre. «Coraggio! – dice Capovilla – dirò una preghiera». Qualche giorno dopo, invece, arriva una raccomandata con un milione di lire per ricominciare. «Come fai – commenta Aldo – a non credere che lo Spirito Santo esiste, anche se ha i suoi tempi».

La storia di Villa San Francesco racconta di quattro mila ragazzi aiutati a diventare adulti, a trovare una famiglia, a venir educati alla vita, formati al lavoro. Tutto ebbe inizio nel 1948 subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando il C.I.F. di Venezia accolse in Facen di Pedavena (BL), bambini fisicamente fragili e bisognosi di ristoro: li ospitava per periodi più o meno lunghi, per riconsegnarli, poi, alle loro famiglie, sollevate nel ritrovarli irrobustiti. Nel 1975 l’attenzione si sposta sulle necessità pedagogiche per sviluppare le potenzialità personali e nasce la “Comunità Villa S. Francesco”. Che fare una volta compiuti i 18 anni? Ragazzi accolti e aiutati a crescere ora hanno la necessità di lavorare e si fonda Arcobaleno ’86, i colori della vita dopo il buio del temporale, con la prima cooperativa di solidarietà sociale della provincia di Belluno. Oggi si occupa di componentistica, rubinetti per le cisterne, soprattutto per il mercato Usa e di ortofloricoltura: ciclamini, stelle di Natale, crisantemi, gerani. A corredo anche l’attività di manutenzione del verde pubblico e privato. La cooperativa riesce così ad avere la sua autonomia economica, dà lavoro ai ragazzi della comunità, senza mai aver chiesto finanziamenti pubblici.

Aldo Bertelle è un fiume in piena, anche di fantasia, e il fiore all’occhiello della comunità è un Museo dei Sogni, della Memoria, della Coscienza e dei Presepi, circa 2 mila provenienti da 178 Paesi del mondo. Scolaresche, gruppi, singoli devono aspettare anche cinque mesi per una visita guidata per uno spazio dall’alto valore educativo che spalanca l’orizzonte sul mondo intero. Sono raccolte le terre di 199 Paesi del mondo e in modo simbolico, mescolate insieme e inserite dentro i “mattoni del mondo” fatti di vetro che sono spediti in tutti i Paesi della Terra come semi di pace perché ogni nazione di questo mondo possiederà, in piccolo, l’intero pianeta.

All’interno dello spazio espositivo sono presenti i segni delle ferite del mondo. Si va dalla tegola di Hiroshima, al mattone di un forno di Auschwitz; dalla pietra della casa di don Milani a Barbiana, all’intonaco manoscritto di Alda Merini; dalla scheggia del Muro di Berlino, al sasso del Monte di Mosè; dal frammento delle Torri Gemelle, al mattone della casa di Lech Walesa a Danzica; dal frammento della diga del Vajont col suo carico di tragedia, all’asfalto sollevato in via D’Amelio dal tritolo che uccise Borsellino; dalla roccia del Golgota, al sampietrino romano su cui cadde il bossolo allo sparo di Alì Agca contro papa Wojtyla.

«L’impegno – spiega Aldo – è spendere e ritornare nelle strade educative del futuro quanto imparato, capito, ricevuto, condiviso in tanti anni di bene solidale e comune, capaci tutti di scrivere insieme una nuova grammatica della cittadinanza, quella dei nuovi cittadini di tutto il mondo».

Impossibile descrivere tutte le iniziative. L’ultima novità è l’esposizione dell’“Italia intarsiata” con oltre 160 legni provenienti da tutte le regioni italiane che raccontano storie positive di bene, memoria, vita. I lavori saranno esposti fino a fine gennaio 2023. Tutti segni di rinascita, vita nuova, rigenerazione sociale.

Aldo Bertelle non solo non si è mai pentito della sua scelta, nonostante le molte difficoltà, ma «tengo lo sguardo fisso al domani, al futuro».

Aurelio Molè

 

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